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La mia storia incomincia all’inizio degli anni ’50 quando vengo a contatto, quasi occasionalmente, con il Moto Club Bergamo. Prima mi ero laureato in medicina nel 1947 e il giorno successivo ero stato assunto all’Istituto Ortopedico “Matteo Rota” di Bergamo dove sarei rimasto per 30 anni. Ma, per me, la mia vera vita da raccontare è quella passata, per oltre quarant’anni, nello sport motociclistico dove, a vari livelli, ho fatto esperienze irripetibili sul piano pratico e su quello umano.
Dicevo, dunque, inizio anni ’50: vengo chiamato a prestare la mia opera di medico sportivo (poco prima a Roma avevo ottenuto, con un esame scritto, il relativo diploma) ad una gara di “regolarità” che si svolgeva nelle valli bergamasche che allora erano la sede, direi quasi naturale, di questo sport. Rimasi affascinato forse più dai partecipanti che delle vicende della competizione; fatto sta che da allora e, come ho detto, per oltre 40 anni non me ne staccai più!
Il Moto Club Bergamo era, e per eredità lo è ancora, il grembo fertile di questa specialità motociclistica che per contiguità territoriale incominciava ad interessare bresciani e milanesi ma il cuore pulsante era qui, in Bergamo. Per iniziativa del Club si incominciò addirittura a prendere contatti con l’estero (Austria e Germania per prime) dove la regolarità era praticata da tempo.
L’audacia organizzativa portò ben presto a tentare l’avventura oltre quella che veniva chiamata la “cortina di ferro” cioè i paesi che allora erano nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica e dove non era facile andare.

Lo sport è sempre stato superiore alla politica (molti anni dopo una partita di ping-pong riaprirà i rapporti fra Cina e Stati Uniti) e così si tentò, con successo, di rendere visita ai Polacchi, a Zacopane, per disputare, un anno là un anno qui, un Trofeo “Francesco Nullo”.
Tecnicamente i piloti erano assistiti da alcune case motociclistiche come GUZZI, GILERA, MIVAL, BENELLI, PARILLA e, certo, altre ancora di cui non ricordo il nome. Quello che ricordo molto bene fu l’arrivo alla frontiera polacca dove occorreva, ovviamente il visto di entrata, la dichiarazione della valuta posseduta da ciascuno, il cambio obbligatorio di una parte di essa e non so che altro ancora il che rendeva il transito lunghissimo e nell’insegna della più specializzata burocrazia.
Una volta entrati ci si poteva muovere apparentemente senza problemi ma non era così: la polizia seguiva discretamente ogni nostra mossa. Ma questo a noi non interessava in quanto il nostro obiettivo era la gara che si doveva disputare.
In albergo venimmo in contatto con la mentalità locale che voleva mantenere gli usi e i costumi polacchi anche quando noi si sedeva a tavola. Ricordo che avevamo portato, ovviamente, spaghetti e parmigiano e che si voleva mangiare, quanto più possibile, all’italiana. Andai in cucina a vedere come andavano le cose e per prima cosa scoprii che avevano si un colapasta ma che esso poteva contenere, al massimo, un mezzo chilo di spaghetti cosicché dovemmo scolare la pasta per trenta o quaranta persone facendo una fatica d’inferno con quel piccolo attrezzo.

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